Per tradizione, la seconda domenica di settembre, la gente del mio paese andava "in pellegrinaggio" a Boca.
La mattina, accudite le mucche, partivano in bicicletta gli uomini, in modo da raggiungere il Santuario in tempo per la interminabile "Messa Grande".
Nel pomeriggio, si avviavano a piedi le donne con qualche bambino.
Oltrepassata la cascina del Bergallo, superata la "Madonna della Rama", scalato il ripido "Motto dell'Asino", si abbandonava il sentiero nel bosco e ci si dirigeva verso la Baraggia di Boca, il paese dei due corridori ciclisti Piemontesi e Valazza. Loro che, in epoche diverse, avevano dato lustro alla frazione. E che un piccolo monumento accanto alla chiesa accomuna ora nel ricordo.
A quel punto, io che mi ero attardato a cogliere more, bacche, mele selvatiche, rientravo nel gruppo e, insieme a tutti, raggiungevo attraverso i campi la meta.
Le donne andavano subito ad appoggiare le mani conto una roccia addossata al muro , che si riteneva miracolosa per il mal di schiena.
Poi si entrava per assistere ai "Vespri" pomeridiani. Io mi rannicchiavo in un angolo vicino alla Sacrestia a leggere il libro che mi ero portato da casa.
In quel Santuario neoclassico edificato su progetto dell'Antonelli e ricostruito dopo il crollo del 1907.
In quel paese di Boca, patria di un vino pregiato, da bere "in meditazione", al cospetto del giudice più severo: la nostra coscienza.
In quell'angolo un po' nascosto dove il bimbetto che ero vorrebbe tornare a sedersi per rileggere i libri di Jules Verne e rivivere i sogni di allora. Quelli che si sono realizzati e quelli che si sono perduti.
Sbuffando magari un po' perché la lettura era finita ma non era ancora il momento di tornare a casa.