venerdì 8 maggio 2015

La vigna dei "Dinuni".



Mio padre era felice quando saliva a lavorare nella  vigna in vetta alla collina dei Dinuni.
Quella era la sua occupazione preferita.


Il tempo volava e, poco prima dei rintocchi della campana che segnalavano  mezzogiorno, mia nonna Seta, appostata nel prato del Cios,  sotto la Madonna della Neve, volgeva lo sguardo all'insù e gridava a squarciagola : "Gaudenziu, ven bas!"  (Gaudenzio, scendi giù!).
Perché erano anni di povertà , ancora vicini alla guerra Mondiale, però  distanti dal Progresso che doveva arrivare. Ma un rito era sacro: a mezzogiorno in punto tutti dovevano essere a tavola.
C'era il risotto con le verdure, il salame cotto insieme alle patate, l'insalata selvatica raccolta nel campo.



Ad ottobre inoltrato, pochi giorni prima della vendemmia, gli adulti sistemavano insieme la strada, perché potessero transitare  le mucche con il carro. Se non era giorno di scuola, ci andavo anch'io, a fare incetta di argilla che serviva per i miei giochi.
Non mi impaurivano le vipere che, già mezze addormentate, "ascoltavano" l'ultimo timido sole d'autunno.

Col passare degli anni, le robinie soppiantarono i vigneti, che, uno ad uno, vennero abbandonati.
Accompagnai mio padre il giorno in cui decise di tagliare, con il pianto nel cuore, i tralci di  quell'ultima vigna.
Quell'uomo che sembrava non dover invecchiare mai, cominciò da allora a sentirsi vecchio.  Coltivava l'amarezza di chi ha perso la propria battaglia.



Finchè campò, non smise di tenere l'altra vigna, quella della Baraggetta, che produceva un vino meno buono. Aveva però, tra i filari, piante di fico e di pesco selvatico dai dolcissimi frutti.
C'era anche una "gamba" di Verdea, una uva strana di cui ero ghiotto.
 E, siccome il passo di mio padre si faceva stanco, si dovette per forza sostituire le mucche con il trattore.